(Anna G. Sprovieri)
Di
solito non sono una pesantona, o almeno lo spero. Mi piace sorridere e far
sorridere. Stavolta, però, voglio parlare di qualcosa di serio in maniera
onesta, senza nascondermi. Si tratta di un viaggio lungo e sofferto alla
ricerca della felicità. E questo viaggio è il mio. Vi avverto, il pezzo è un
po’ lungo, non proprio da blog ma quando ho iniziato a scrivere le mani sono
andate da sole.
Quando
a ottobre del 2014 ho cominciato a frequentare il corso di piscina per gestanti
gestito dall’associazione “Serenamente donna e mamma” ero in attesa della
seconda figlia da appena due mesi. Ero spaventata, avevo qualche piccolo
disturbo e non avevo idea di come affrontare questa nuova gravidanza dopo quasi
sette anni dalla prima. E con sette anni in più sul groppone. Il corso me lo
aveva consigliato Giuliana, la mia “collega di blog” e io, come sempre senza
pensare, mi sono buttata a capofitto in questa esperienza. Il primo impatto è
stato traumatico. Non per Maria Francesca e Stefania (le nostre
superostetriche, sempre fantastiche) e neanche per le altre “panzone” del
gruppo (che adoro e con le quali è nata una sincera amicizia) ma per il fatto
che erano tutte molto più giovani di me e quasi tutte alla prima gravidanza.
Smarrimento e panico. Sono la vecchia del gruppo. Ma mica lo avevo scelto io di
arrivare a 39 anni con una sola figlia.
Tutto
è cominciato dopo un paio d’anni dalla nascita di Giorgia, che già si era fatta
attendere un anno prima di decidersi ad arrivare (un periodo abbastanza lungo
per farmi entrare in una spirale di depressione niente male). Io e mio marito
avevamo concordato che era il momento giusto per cominciare a provare ad avere
un secondo figlio. Sapete com’è, per portarci avanti con il lavoro. I primi
mesi nessuna novità, ma con l’esperienza della prima figlia non ci siamo
preoccupati. Passa quindi il primo anno. Passa il secondo. E ricomincia
l’inferno. Sì perché è questo che provi quando si avvicina “quel periodo”. Tu
preghi con tutte le tue forze che non arrivi il ciclo e invece lui è puntuale
come un orologio svizzero. E allora ti senti sconfitta, inadeguata, svuotata.
E’ inutile chiedere sostegno, nemmeno a tuo marito che per quanto soffra e voglia
aiutarti non sa che fare, cosa dire. Non è colpa sua, è solo che è uomo, non
può comprendere fino in fondo. E queste sensazioni si moltiplicano ad ogni mese
che passa.
E
mentre a casa combatti con te stessa e con tua figlia che ti chiede
ossessivamente compagnia perché è l’unica in classe ad essere figlia unica,
fuori c’è sempre chi (con il solito tatto di un elefante in un negozio di
cristalli) ti dice: “Ma quando lo fai un fratellino o una sorellina a Giorgia?
Non va bene lasciarla sola, almeno due figli ci vogliono…”. CI VOGLIONO? MA CHE
CAVOLO VUOL DIRE “CI VOGLIONO”??? Mica parliamo delle asciugamani del bagno o
del deodorante. Quelli ci vogliono. Una famiglia è una famiglia, con uno,
cinque o zero figli.
A
questo punto comincia il pellegrinaggio da un medico all’altro. Altri due anni
e mezzo di analisi, visite interminabili, integratori per mio marito, persino
la mappatura genetica. Non si trova niente che non va. Mi sottopongo persino ad
una isterosalpingografia (in altre parole l’esame delle tube), per me
dolorosissima ma è l’unico esame che non ho ancora fatto. Non si sa mai.
Niente. Niente di niente. E allora PERCHE’? Sono già quattro anni senza neanche
l’ombra di una gravidanza.
Tentiamo
quindi l’ultima spiaggia: un centro per la fertilità a Roma. Solita trafila
ripetuta mille volte: analisi, visita, responso. Anche per mio marito. Unica
possibilità la fecondazione assistita. Inutile dire che mi crolla il mondo
addosso. Ma come? Una figlia ce l’ho già, com’è che non c’è niente da fare?
Nessuna risposta plausibile.
Ce
ne torniamo quindi a casa con un pacco di fogli in mano con tutte le istruzioni
e le spiegazioni del caso. Ah, ovviamente, il consenso informato. E più leggo e
più il mio sogno svanisce. Sì perché io non posso assumere ormoni a causa di un
problema di salute e senza ormoni la fecondazione assistita è inutile.
Punto.
E’
finita.
Basta
medici, non voglio più vederne o sentirne parlare.
Adozione?
Onestamente non so se sono in grado di amare come quei bambini meritano. Nel
dubbio opto per un sensato no.
Pasqua
2014. Finalmente e faticosamente ho raggiunto il mio equilibrio. Lavoro tanto,
Giorgia ormai è grande e autonoma e io ho una vita piena e organizzata. Decido
di dar via la culla, montata da quasi sette anni nella stanzetta che sarebbe
dovuta essere quella del fratellino/sorellina. Mi sono rassegnata, insomma.
18
agosto 2014. Sono appena tornata dall’Inghilterra dove ho accompagnato i miei
studenti. Ieri aspettavo il ciclo ma niente. Sarà stato il volo, il cambiamento
d’aria.
20
agosto 2014. Ancora niente ciclo. Inizio a preoccuparmi. C’è qualcosa che non
va. Lo dico a mio marito e mi dice di aspettare. Arriverà.
21
agosto 2014. Non ce la faccio ad attendere ancora. Compro un test e lo faccio
in compagnia di mio fratello, mio marito non vuole alimentare false speranze.
Se devo chiamare un medico non posso aspettare. Tre minuti e la mia vita
cambia. Incomincia a lampeggiare: INCINTA. Calma, dice mio marito. Potrebbe
essere un falso positivo.
22
agosto 2014. L’esame del BHCG non mente. Qualcuno cresce dentro di me. Ed è
gioia. Pura gioia.
23
luglio 2015. Oggi Elisabetta compie tre mesi. Non riesco già più a ricordare
com’era la mia vita prima di lei. Non oso nemmeno immaginare il futuro. Prendo
quello che viene ogni giorno.
Ho
deciso di raccontare la mia storia perché spero che sia di aiuto a chi, per un
motivo o per un altro, lotta alla ricerca di una gravidanza. Noi donne siamo
esseri delicati ma imprevedibili in cui la testa gioca un ruolo di primo piano.
In alcuni casi pensiamo troppo e questo non giova, ed è quello che è successo a
me. In altri (troppi) i problemi sono di natura fisica. Ma comunque vada,
ricordiamoci che siamo madri dentro, esseri istintivi e pieni di risorse che sanno
sempre rialzarsi e guidare il proprio amore “in eccesso” lungo strade diverse. Senza
dover nutrire sensi di colpa. Perché siamo madri, con o senza figli.
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